locandina -ideata da ROBERTO TRABUCCHI
retrospettiva PELIZZATTI ELIOSONDRIO, maggio 2011
locandina per mostra personale Palazzo Pretorio, Museo Valtellinese di Storia ed arte. Casa della Cultura a Talamona
POESIE DEL POETA GIORGIO LUZZI, DEDICATE AD ELIO ED ISPIRATE DAI SUOI DIPINTI
H E L I O S
(cantiere)
Descrivi la chiarezza, entra nel suo dominio:
con l’enfasi o il terrore
non si alzano muri, non si aprono
finestre. E non dirmi che ti basta
la ruga di sudore.
Ma sotto queste travi elementari,
questi zig-zag nervosi, filtrano
stabilità, continuità, ristagno: e questo
fa pensare a un corpo dimenticato
carezzato dal sonno. È dal complesso
che può tornare semplice la vita,
risponde il muratore.
Poi si interrompe, forse schianta o dorme
in un letto di calce, due mani lo rovesciano
nel sepolcro ospitale di un solaio.
(periferia)
Dove falcia gli spazi il faro dello stadio
incontra al punto più cocente
il braccio della gru. E giocano tra loro
dimenticando il mondo,
con le carezze l’uno, l’altro
con la calma meccanica degli angoli
nel suo verde ritinto, nello scaltro
muoversi suppergiù.
(vecchia finestra)
Guardalo, che fossa luminosa
quel volto scarno escluso dalla notte,
chino su un barattolo di fave
crude e fredde. O non sarà
forse la lastra che è caduta
da questi poverissimi telai,
la ghigliottina involontaria
che ha trasformato un pasto
in una vita sparpagliata all’aria.
(contrari)
Ancora neve e fiori, l’ideale
del paradosso. Ancora
il puro rumore dei nomi. È l’arte
che è una sfida di ghiaccio,
che va a spingersi dove più colore
fiammeggia in una vita che si muore.
E vede forche, zanne
appostate nel buio, e sente di nascosto
un ostile respiro. Eppure spinge
le sue sfide ai confini della vita:
breve tiranna, suddita infinita.
(greto)
Di questi sassi, di pochi detestabili
pesi si armò bevendo la corrente.
Protetto dalle sue radici, il fiume
che l’avvolse, lontano
dall’estuario, era piuttosto un basso
marrone o blu striato
di granchi e tralci,
bastante per un corpo orizzontale
per una fluitante Ofelia
impigliata alla flora del fondale.
(Golgota)
Sul Calvario, affollato da millenni
di melodie cristiane, c’è maltempo.
Lungo la riga di fiele
che scende tra le coste cercando il perizoma
si celebra lo sconcio rituale delle merci.
C’è uno stacco letale
tra la massa di plastiche e cocci
di incestuosi rifiuti
e l’oltre incorporale
dell’incombente temporale
le gallerie di spuma grigia dentro
quei manicotti gassosi
di lieviti e anidridi.
(spiaggia con rottami)
Ma a un certo punto si vide. Qualcosa
come un ventre o un sospiro
di peli infangati, scabri, scossi
tra canneto e lamiere, con un laser
puntato agli occhi, una pistola
contro la coscia: il Sé
rovesciato, ubriaco, che gioiva
con tutta una spiaggia davanti
e intorno un sole a ghironda
impigliato in nuvole d’agosto
soffianti su quel carneto appisolato.
(distruzione e compimento)
Verso casa va, dentro la luna
che ne disegna limpida la guancia
ne inargenta il sudore,
più che umano il terrore della notte.
Latra un cane, e che altro,
tra le lastre recise
da una festosa affettatrice:
di fronte il fuoco,
l’erpice alle spalle. Chiude
la scena un primo piano buio,
un mormorio di falci fradice.
( natura morta)
Non ha lasciato nulla che sia vivo
se non ombra, un rumore di abitudini che vaga
anche quando l’immagine si è persa. Intorno
fiori di cardo, stracci
che del cardo hanno l’ardua consistenza
le nobili croccanti pieghe e spine
e tubi rotti, fiottanti come arterie.
(il fosso)
Si avvicina il duello. La folla – certo
non più che un rauco ansito – si apre
la via lungo il falciato
tra le risaie. In primo piano
il mostro, un polpo d’erba dura,
si leverà violando
il fischio dei padrini.
Si fa sotto la folla
sparsa per gli acquitrini. L’animale
sfonda l’orizzonte, già mugola
dentro un camion divelto, pronto
di muscoli nodosi, cesoie di mascelle.
(pubblicità)
Di mercato si muore: di mercato
in mercato si brucia di furore.
Le cose rimosse saranno riaffiorate, tutto
tornerà a recitare, a vomitare.
Il duca in primo piano si allenta la cravatta
perde bava, minaccia il baratro del PIL:
un palco, un viso da
piazzista e comiziante lombardo per davvero
dentato e perfettoso bassuccio e ceronato,
l’iride perduta nello share –
e intanto piove scuro e denso,
scrosci come di sangue che sia scosso,
sia nuvola di pietra oppure insetto
da tromba o pungiglione. Tutto muore.
(il guardiano)
Canis sapiens. Specie
posthuman, così detta dal
tipo di postura orante, incline
alla caduta di autostima, timido
splenetico e anoressico
che a tirarlo a passeggio spara
eczemi e impuntature:
ma di colpo si fa strada
quel vermiglio canaglia di rottami
il possibile sangue
che lo farà tornare allegramente
al tempo dei piaceri genitali
nei bivacchi glaciali.
L’ultima volta che lo vidi, Elio mi regalò un cataloghino molto elegante di suoi lavori, sprovvisto di titolo, edito a Berbenno a cura dell’AMA (Associazione Arte Mongiardino), stampato a Montagna in 500 copie numerate nel luglio 2003 e dotato di due scritti prestigiosi a firma, rispettivamente, degli amici comuni Graziano Tognini e Giovanni Bettini. In epigrafe una espressione del Padre Camillo che da noi ha fatto epoca, in tutta la sua densa semplicità: “Si può, si dovrebbe essere grati agli artisti. Che cosa sarebbe la nostra vita senza la loro compagnia?”; datata, questa frase, Madonna di Tirano 1966. Il volumetto riporta una breve scelta di dodici lavori dal 1963 al 2003. Non ricordo con sicurezza l’anno e la stagione di quel nostro ultimo incontro, ma certo, appunto, non può essere avvenuto prima del luglio 2003, né dopo l’autunno del 2004 poiché in quella data – come dirò dopo – mia madre si sarebbe trasferita in Piemonte lasciando Delebio. Dunque si parlò con intensità e emozione: del lavoro rispettivo di entrambi, degli anni sondriesi ormai antichi di sodalizio fruttuoso e consapevole che ci aveva visti in un certo senso protagonisti (e per un certo periodo era stata la presenza del caro e stimolante ingegno di Piergiuseppe Magoni ad aggiungersi come altra figura trainante in questa équipe di intellettuali di provincia tra arte e poesia), e infine dei progetti a venire. Elio, mostrandomi nel suo studio il panorama dei lavori in corso, mentre sorseggiavamo pacatamente del vino fresco e chiaro (o forse, adesso che ci penso, era un vino intimo e cupo: segno che non ricordo bene la stagione in cui ci trovavamo), tirò fuori con cautela un po’ misteriosa una mia poesia dattiloscritta: si intitolava “Una storia”, portava la data del luglio ’68 e la dedica autografa “A Elio Pelizzatti, con amicizia, Giorgio Luzzi, agosto ‘68”. La rilessi non senza un certo disagio, tanto scattarono immediatamente le riserve che erano maturate in me relativamente al lavoro in versi di quegli anni, che consideravo e considero non propriamente presentabile senza forti esitazioni. Ricordo però che Elio di manifestava tenacemente affezionato a quei versi, fino a chiedermi di poterne fare uso per non so quale sua prossima occasione di presentazione in pubblico. Mi congedai da lui chiedendogli di accettare che gli spedissi da Torino una poesia più recente e più matura, in una parola più prestigiosa. Mi parve un po’ deluso e però andavo pensando che i confronti relativi alle rispettive forme di maturità che il pittore e il poeta potevano vantare in quegli anni sessanta pendevano nettamente a favore di lui.
Ripresi il treno per Delebio, dove avrei passato alcuni giorni ospite di mia madre. Già in treno esaminai con cura il piccolo catalogo. La sera stessa prendevo la decisione su come risolvere la richiesta di Elio di rinverdire anche pubblicamente il nostro antico sodalizio: il cataloghino AMA, che continuo a conservare con cura, riporta le riproduzioni di dodici immagini, la facciata sinistra di fronte a ogni immagine è completamente bianca salvo riportare in basso, scritta in piccolo, la definizione tecnica e cronologica essenziale dell’opera riprodotta. Disponevo quindi di dodici splendide paginette bianche di forma quadrata, composte da una carta solida e liscia, una carta da penna biro ideale come una pista di sci, dodici docili vergini che avrei potuto abbigliare con emozione un po’ eccitata. Liberamente riferite alle rispettive immagini sulla destra, le dodici poesie nacquero a Delebio nel giro di non più di due giorni: non dimentichiamo che il dodici, con i suoi multipli, è un numero pressoché “sacro” per la musica, da Bach a Chopin a Schönberg. Come si può vedere, nel manoscritto originale nessuna è dotata di titolo: i titoli sono venuti dopo e, salvo alcune evidenti eccezioni, sono gli stessi dei dipinti che hanno ispirato le rispettive poesie. Il piccolo catalogo con i manoscritti riporta anche il titolo della raccolta di versi: HELIOS. La parola è bivalve: anzitutto è un riferimento immediato al nome proprio dell’amico; ma poi c’è un altrettanto trasparente richiamo al sole, alla forma greca della sua pronuncia che ne definisce l’arcaicità, con uno slittamento sull’idea di “Sole nero”, il “soleil noir” che Julia Kristeva prende da Nerval per farne il titolo di un suo grande libro, il libro della malinconia come condizione clinica del disagio universale. Ma il Sole Nero che sta sotto le insegne di Helios fu per me anche il frutto di una riflessione precisa che mi proveniva dalla osservazione ripetuta e coinvolta dei dipinti riprodotti: ed era il tema del degrado ambientale, la severa e inquietante denuncia che Elio portava avanti senza mai cadere nel retorico o nell’eccessivo. Sole nero è la luce oscurata, il nostro habitat lacerato, devitalizzato, il preludio della morte del (nostro) mondo per eccesso di confidenza e di superficialità, per vanità e stoltezza, e soprattutto per avidità. Fu così che la componente catastrofistica della mia personalità decise di mettersi al lavoro: si trattò, come si suol dire, di un invito a nozze. Aggiungete che questa circostanza veniva a riattivare in me, nelle forme e motivazioni del mio lavoro, la virtù di quello che il vecchio Goethe chiama “buon soggetto” dal quale partire per comporre versi. Ricordo poi di aver scritto a Elio parlandogli del progetto di collaborazione. Ma non ne seppi più nulla: evidentemente ciò che gli interessava era una ripresa di contatto ideale con il sodalizio degli anni giovanili; se ci penso ora, mi pento un po’ di non averlo capito. Anzi, probabilmente l’avevo capito benissimo ma mi era necessario difendere la mia immagine evitando di rendere pubblica una piccola banalità in versi come quella che mi veniva richiesto di utilizzare. Solo anni dopo, pochissimi anni dopo peraltro, venni a sapere che lui ci aveva lasciati per sempre.
Intanto le dodici poesie di “Helios” erano finite nell’impastatrice della mia passione per le varianti, sottoposte al solito esasperante processo di verifiche, di pentimenti, di entusiasmi e di revoche. La serie è stata lì lì per entrare come sezione d’apertura nel mio libro più recente, “Sciame di pietra”, comparso pochi mesi fa da Donzelli; ma avevo deciso di non includerla, e non per ragioni di qualità ma proprio perché avrebbe finito per non potersi collegare facilmente al resto per ragioni tematiche. Due di queste poesie (“il fosso” e “il guardiano”) sono state tradotte in inglese da Jason Laine e recentemente comparse, assieme a numerose altre e con una nota di Ernesto Livorni, nella rivista statunitense “L’anello che non tiene – Journal of Modern Italian Literature” che si stampa a cura della università di Madison nel Wisconsin e che è diretta dallo stesso Livorni, italianista in quella sede. Tutte le altre sono inedite. La storia delle varianti della serie ha dietro di sé ormai non pochi anni di attività. Certo l’equilibrio tra riconoscibilità della fonte di ispirazione (i dipinti di Elio, uno per uno) e l’autonomia testuale è stato, sempre che sia stato raggiunto, frutto di un lavoro complicato, carico come sempre di dubbi e di ansie. Talvolta, come si può vedere, la distanza tra il messaggio dell’immagine e quello del testo poetico è davvero radicale. Altre volte le due situazioni si riconoscono a vicenda, sia pure con maggiore o minore fedeltà. E così non mi vengano a dire che scrivere poesie è un’attività nobilitante, distensiva, purificante e vitalizzante. Niente di più sbagliato: è viceversa, almeno nella mia esperienza (ma con il “conforto” di numerose esperienze contigue), fonte di dubbi, frustrazioni, coercizioni alla scelta, verifica del limite e dell’imperfezione ecc. Magari con qualche stato di esaltazione qua e là: quelli che definiamo gli “zuccherini” parsimoniosamente elargiti a ogni animale da soma. Ma è un lavoro, come tutti i lavori. Lo si è scelto e sarebbe stolto lamentarsene. Si tratta appunto di un impegno per la vita, come è stato quello di Elio: scommetto che se lui ci fosse ancora ci confideremmo su questo ordine di tormenti e finiremmo per concludere, come si usa dire degli amori più impegnativi e drammatici ma proprio per questo forse più grandi, che se potessimo tornare indietro torneremmo a sceglierlo.
Torino, marzo 2010 Giorgio Luzzi